Come impariamo a investire? Attraverso l'osservazione dei mercati, lo studio dei dati e l'esperienza diretta.
Chi ha studiato, letto, investito con attenzione e disciplina si ritrova spesso ad applicare modelli mentali di finanza personale costruiti su anni di performance osservate. Ma proprio questi modelli, se troppo rigidi, possono diventare gabbie. È il caso classico di chi, convinto di aver imparato tutto dal passato, finisce per sottovalutare la possibilità che il futuro si manifesti in modo radicalmente diverso.
L'errore più rischioso, come fa notare il Wall Street Journal, è dunque credere che ciò che ha funzionato ieri funzionerà anche domani. Questo equivoco, a livello cognitivo, prende il nome di “recency bias”, ma nella pratica si manifesta come una distorsione delle aspettative fondata su una memoria selettiva dei mercati.
Chi ha iniziato a investire tra il 2009 e il 2021 ha visto salire azioni e obbligazioni quasi ininterrottamente, e ha imparato che ogni crollo è seguito da un rimbalzo. Ma chi ha investito nel 2000, nel 2008 o nel 2022, ricorda che i rimbalzi non sono garantiti e che talvolta si impiega un decennio intero per tornare ai livelli precedenti.
L'esperienza personale, non solo non è neutrale, ma può diventare una lente deformante. Seleziona, enfatizza e distorce. Può indurre a sovrappesare titoli growth perché negli ultimi anni hanno performato bene, oppure a escludere mercati esteri che hanno dato delusioni in passato. Così facendo, si finisce per investire sulla base di ciò che si conosce meglio, e non di ciò che è più conveniente oggi.
L'educazione finanziaria è indispensabile, ma non è un vaccino contro gli errori. Anzi: può rafforzare una convinzione pericolosa, ovvero che la propria preparazione sia sufficiente a prevedere i mercati o a batterli sistematicamente. L'overconfidence, o eccessiva sicurezza nelle proprie capacità, è documentata da decenni di studi comportamentali e colpisce in modo più acuto proprio gli investitori informati.
Chi ha un bagaglio di conoscenze strutturato tende a riconoscere pattern dove non ce ne sono, a sovrastimare la propria capacità di anticipare trend e rotazioni settoriali, a ignorare i segnali che non si adattano al proprio scenario base. Il risultato? Una maggiore esposizione al rischio, dettata da una fiducia eccessiva nei propri strumenti analitici.
Questo atteggiamento è amplificato nei momenti di alta volatilità. Quando i mercati si muovono rapidamente, chi ha vissuto cicli passati può reagire secondo schemi consolidati, dimenticando che il contesto è mutato. Ciò che ha funzionato in un regime di tassi zero potrebbe fallire in un contesto di inflazione persistente. Gli strumenti che premiavano in un'economia globalizzata possono non avere senso in un mondo frammentato da guerre commerciali e nuove alleanze geopolitiche.
L'antidoto a questo errore non è rinunciare alla propria esperienza, ma metterla in discussione. Significa aggiornare le proprie convinzioni alla luce di nuovi dati, nuovi contesti e nuove correlazioni. Non basta sapere che l'azionario ha reso più dell'obbligazionario: bisogna interrogarsi su cosa può modificare questo rapporto nel prossimo decennio.
Significa anche uscire dalla propria comfort zone di mercato. Chi ha sempre investito negli Stati Uniti può scoprire che l'Europa, l'Asia o i mercati emergenti offrono oggi valutazioni più interessanti. Chi è abituato ai fondi attivi può valutare ETF più trasparenti. Chi crede nell'oro come bene rifugio deve sapere che il suo valore reale ha vissuto decenni di stagnazione, anche in contesti di crisi.
In questo contesto, è utile mantenere una sana umiltà finanziaria: quella che spinge a non dare nulla per scontato, a stressare le proprie tesi d'investimento e a confrontarsi con visioni divergenti.