Che cosa può davvero controllare un detective incaricato dall'azienda? E soprattutto, fino a che punto questi controlli sono compatibili con i diritti fondamentali del lavoratore?
Negli ultimi anni il mondo del lavoro italiano ha visto una crescita nell'uso di investigatori privati da parte delle imprese. A muovere i datori di lavoro sono la necessità di garantire il rispetto delle norme, la volontà di verificare la produttività reale dei dipendenti e, non di rado, il sospetto di abusi nell'utilizzo di permessi retribuiti, in particolare quelli previsti dalla legge 104/1992. Questo scenario solleva interrogativi complessi: che cosa può davvero controllare un detective incaricato dall'azienda? E soprattutto, fino a che punto questi controlli sono compatibili con i diritti fondamentali del lavoratore?
La legge 104 nasce per garantire supporto e tutele ai lavoratori che assistono familiari con disabilità o che necessitano di permessi per la propria condizione di salute. Le cronache giudiziarie hanno documentato numerosi casi in cui i permessi venivano utilizzati per attività del tutto estranee, dal viaggio turistico all'attività sportiva. In questi frangenti, le aziende incaricano investigatori privati per raccogliere prove dell'abuso, e la giurisprudenza della Cassazione ha più volte confermato la legittimità dei controlli se mirati e proporzionati.
Ciò che conta è il principio del rapporto fiduciario: se il comportamento extralavorativo contraddice la finalità del permesso, il lavoratore può andare incontro a sanzioni disciplinari fino al licenziamento per giusta causa. In questo senso, l'attività degli investigatori diventa importante per documentare fatti oggettivi, validi in sede di giudizio, che l'azienda non avrebbe potuto rilevare attraverso i tradizionali strumenti di controllo interno.
Il discrimine è chiaro ma delicato: non è lecito monitorare la vita privata in senso assoluto, ma solo verificare che il dipendente utilizzi il tempo retribuito in coerenza con le finalità dichiarate. L'abuso di un diritto non tutelerebbe più la persona, bensì comprometterebbe la fiducia che sta alla base del contratto di lavoro.
Non solo permessi: sempre più aziende ricorrono a investigatori per valutare il livello di produttività dei dipendenti, soprattutto quando emergono anomalie nei ritmi di lavoro, pause prolungate o riduzioni ingiustificate dell'attività. In questo contesto si parla di controlli difensivi, che la Cassazione ha distinto dai controlli a distanza regolati dallo Statuto dei lavoratori. Mentre i secondi richiedono autorizzazioni specifiche e accordi sindacali, i controlli difensivi sono ammessi se servono a indagare illeciti e se non hanno carattere generalizzato o preventivo.
La differenza è sottile: un investigatore non può monitorare ogni gesto quotidiano per valutare l'impegno complessivo, ma può documentare episodi sospetti già segnalati, come l'assenza ingiustificata da postazioni di lavoro o l'uso distorto di strumenti aziendali. È quindi una forma di indagine circoscritta, che non sostituisce il controllo manageriale ma interviene a valle di indizi concreti.
Il criterio guida resta quello della proporzionalità: il controllo deve essere giustificato, limitato nel tempo e finalizzato alla raccolta di prove utilizzabili in sede disciplinare o giudiziaria. In assenza di questi requisiti, l'attività investigativa si trasformerebbe in un monitoraggio illegittimo, lesivo della dignità del lavoratore e privo di valore legale.
Un altro terreno su cui si gioca la partita dei controlli riguarda gli spostamenti dei dipendenti, soprattutto per chi utilizza veicoli aziendali o svolge mansioni itineranti. Qui entra in gioco la geolocalizzazione, che può essere uno strumento prezioso per verificare la correttezza nell'uso dei mezzi e la coerenza tra spostamenti e incarichi assegnati. La normativa italiana impone regole stringenti: ogni sistema di tracciamento richiede accordo sindacale o autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, oltre a informative chiare ai lavoratori.
Il Garante Privacy ha più volte sanzionato aziende che utilizzavano dispositivi GPS in modo eccessivo, trasformando lo strumento in una sorveglianza continua e non giustificata. Questo dimostra quanto sia sottile il confine tra controllo legittimo e violazione dei diritti, soprattutto quando la tecnologia consente di raccogliere grandi quantità di dati in tempo reale.
La soluzione più efficace rimane la trasparenza: chiarire in anticipo le finalità del tracciamento, limitare la conservazione dei dati allo stretto necessario e garantire che lo strumento serva a proteggere il patrimonio e non a invadere la vita privata. Solo così gli spostamenti possono essere monitorati senza compromettere il rapporto fiduciario tra azienda e dipendente.