Cresceranno molto poco le pensioni nel 2026 nonostante la solita rivalutazione annua: il costo della vita continua a salire troppo e non c'è alcun adeguamento reale dei trattamenti. La situazione e le simulazioni
L’attesa per i nuovi aumenti delle pensioni previsti nel 2026 si accompagna a una crescente disillusione. Mentre molte famiglie speravano in adeguamenti più incisivi, la realtà mostra che gli incrementi annunciati coprono solo una piccola parte delle necessità effettive. Il costo della vita, spinto dall’inflazione e da rincari generalizzati, continua a salire, lasciando i pensionati in difficoltà nel far fronte alle spese quotidiane. Gli adeguamenti programmati, seppur presenti, risultano insufficienti a colmare il divario tra importi erogati e reale potere d’acquisto perso negli ultimi anni.
Il sistema di adeguamento delle pensioni al costo della vita, noto come rivalutazione annua pensionistica, rappresenta uno dei pilastri della previdenza pubblica, ma la sua reale efficacia è stata più volte messa in discussione. In Italia, la rivalutazione annuale dovrebbe servire a mantenere intatto il potere d’acquisto dei pensionati, adeguando gli importi percepiti alle variazioni dell’inflazione ufficiale. Tuttavia, interventi legislativi e modifiche regolamentari hanno più volte limitato questo processo, spesso al fine di garantire la sostenibilità della spesa pubblica.
Negli ultimi anni, le manovre di bilancio e decisioni successive hanno ridotto progressivamente il peso della perequazione, colpendo soprattutto il ceto medio e coloro che hanno contributo di più durante la vita lavorativa, e riducendo di molto il potere di acquisto dei pensionati.
La rivalutazione piena, infatti, è stata garantita solo alle pensioni fino a un certo importo, mentre per tutte le altre sono state applicate percentuali ridotte o addirittura blocchi nelle fasce più alte. Questo meccanismo, mirato a contenere il costo del welfare, ha comportato un accumulo di perdite in termini di capacità di spesa, erodendo anno dopo anno quello che le famiglie avevano programmato per la propria sicurezza economica.
Per il 2026 il tasso di rivalutazione sarà solo dell’1,4%, ben lontano dal tasso dell’1,7% inizialmente annunciato e ancora più basso rispetto all’aumento effettivo dei prezzi rilevato, soprattutto nel settore alimentare ed energetico.
La pensione, spesso percepita come “porto sicuro”, ha perso la sua funzione originaria, costringendo molti pensionati a rivedere piani di vita, budget e abitudini di spesa.
A causa delle forti riduzioni e dela continua erosione del valore delle prestazioni si è diffuso un sentimento di insicurezza economica e sfiducia verso le istituzioni. Le criticità sollevate dalle principali organizzazioni di rappresentanza (come Federmanager e CIDA) evidenziano come la sostenibilità del sistema non possa prescindere da trasparenza nelle norme e da un maggiore equilibrio tra previdenza e assistenza, per recuperare la funzione protettiva e riconoscere il contributo di chi ha lavorato a lungo.
Uno degli aspetti più critici per chi vive di reddito fisso riguarda il fiscal drag, crescendo d’importanza in un contesto inflazionistico. Si tratta di un fenomeno per cui, quando il reddito aumenta per effetto della perequazione e l’inflazione sale, le aliquote fiscali non vengono automaticamente aggiornate.
Cosa succede in pratica: l’aumento pensionistico viene tassato come se fosse un incremento reale del potere d’acquisto, ma in verità serve solo a recuperare quanto perso con il rincaro dei prezzi, lasciando al pensionato meno disponibile rispetto alla crescita delle spese.
Secondo le ultime stime, la perdita dovuta a questo mancato adeguamento raggiunge cifre importanti: la differenza tra imposte effettivamente pagate e quelle che si sarebbero corrisposte se il sistema fiscale fosse stato pienamente indicizzato all’inflazione è rilevante.
Esempi concreti evidenziano la portata del problema: anche le recenti riforme fiscali hanno alleviato solo parzialmente il fiscal drag, garantendo un recupero pieno solo per i redditi più bassi (inferiori a 35mila euro lordi). Invece, per le fasce medie e medio-alte, la pressione risulta ancora superiore rispetto agli anni pre-inflazione, contribuendo a un’erosione netta del reddito pensionistico disponibile. Il rischio, secondo esperti come Leonardi e Rizzo, è che il peso del fiscal drag continui a crescere senza un intervento di sterilizzazione permanente, sottraendo risorse ai pensionati ogni anno.
Alla luce delle decisioni già prese e delle previsioni economiche, gli aumenti delle pensioni per il 2026 risultano particolarmente contenuti. Il tasso di perequazione applicato sarà dell’1,4%, inferiore all’inflazione reale registrata soprattutto su beni essenziali come i generi alimentari.
Analizzando i dati forniti da CGIL e SPI, si ottengono alcune simulazioni rappresentative:
| Importo pensione netta 2025 | Importo 2026 con +1,4% | Aumento mensile effettivo |
| 616,67 euro (minima) | 619,79 euro | +3,12 euro |
| 1.000 euro | 1.011 euro | +11 euro |
L’entità dell’incremento dimostra che gli aumenti sono largamente insufficienti a recuperare il potere d’acquisto perso. Per pensioni superiori, la percentuale destinata alla rivalutazione si riduce ulteriormente, a causa della struttura a scaglioni del meccanismo e degli ulteriori tagli previsti dalla normativa vigente. Il risultato è che la perdita accumulata negli anni precedenti non viene compensata, nemmeno parzialmente.
Oltre alle simulazioni matematiche, emerge un dato sociale: molti pensionati continueranno a dover fare rinunce anche per le spese ordinarie, mentre aumentano i margini di disuguaglianza tra i vari trattamenti percepiti.
L’insufficienza degli adeguamenti annui comporta ripercussioni dirette e immediate sulla qualità della vita degli anziani. Il riferimento più immediato è il cosiddetto “carrello della spesa”, il cui costo medio è cresciuto ben più del tasso ufficiale d’inflazione preso a base per la perequazione.
Sono aumentati soprattutto beni di largo consumo, energia e servizi essenziali: ciò significa che anche incrementi nominalmente positivi si rivelano irrilevanti nella copertura delle spese reali.
Per molti pensionati, i bassi importi della pensione costringono a tagliare le spese per salute, alimentazione e socialità, a discapito del benessere personale e della coesione sociale. La mancata indicizzazione piena si trasforma quindi in una compressione della speranza di vita in buona salute e in un peggioramento delle condizioni di serenità, specie per chi non può contare su altre fonti di reddito o sul sostegno familiare.