A causa delle mancate rivalutazioni, le pensioni hanno perso circa 10mila euro in potere di acquisto in dieci anni: i calcoli
Negli ultimi dieci anni il reddito reale degli anziani italiani ha subito una notevole erosione. Secondo le analisi condotte da Uil Pensionati e riportate da diversi osservatori qualificati, le mancate rivalutazioni piene hanno inciso in modo permanente sulle finanze dei pensionati. Una pensione lorda di fascia media, ad esempio, ha subito una perdita vicina ai 10.000 euro in meno sul potere di spesa cumulato in un decennio. L’inflazione crescente e il blocco o la riduzione delle perequazioni hanno vanificato la promessa di una tutela rispetto al costo della vita garantita dalla legge.
Il sistema italiano prevede che gli assegni vengano aggiornati annualmente in base all’inflazione, tramite un meccanismo noto come "perequazione automatica". Questa dovrebbe assicurare la copertura totale o parziale dell’aumento dei prezzi rilevato dall’ISTAT, garantendo così il mantenimento del potere d’acquisto nel tempo. Tuttavia, le regole di rivalutazione sono cambiate molte volte nell’ultimo decennio, spesso riducendo la portata dell’adeguamento.
Le principali modalità di perequazione si differenziano tra scaglioni, fasce di reddito o applicazione sull'intero ammontare:
Secondo CER e Cupla, anche le pensioni minime, pur con rivalutazioni complete, soffrono la sottostima del paniere ISTAT di riferimento: nei fatti i beni e servizi utilizzati dai pensionati crescono di prezzo più dell’indice utilizzato, aumentando la penalizzazione reale. Il risultato, a livello complessivo, è il progressivo impoverimento della platea pensionistica italiana.
L’entità della perdita di potere d’acquisto varia sensibilmente in base all’ammontare della pensione. Secondo un'analisi condotta dalla Uil Pensionati, per esempio, una pensione lorda di 2.256,21 euro nel 2014 che nel 2024 avrebbe dovuto raggiungere i 2.684,37 euro lordi se fosse stata rivalutata al 100% dell'inflazione, è arrivata solo a 2.615,40 euro lordi, comportando una differenza di 888,61 euro su base annuale (2024) e una perdita complessiva di 2.067,48 euro in dieci anni. Mentre su una pensione iniziale di 3.500 euro lordi nel 2014 la perdita è ancora più alta: la differenza è di 4.136,86 euro nel solo 2024 e di 9.619,74 euro nel decennio.
Ecco le stime e i casi concreti:
| Importo lordo (2014) | Importo se pienamente rivalutata (2024) | Importo reale 2024 | Perdita totale (10 anni) |
| 2.256 € | 2.684 € | 2.615 € | 2.067 € |
| 3.500 € | — | — | 9.620 € |
Dalla tabella emerge come una pensione medio-alta abbia subito una sottrazione di quasi 10.000 euro in dieci anni per effetto delle mancate rivalutazioni complete. Per fasce ben superiori, le simulazioni di Itinerari Previdenziali e Cida stimano perdite fino a 13.000 euro in dieci anni per trattamenti sopra i 2.500 euro lordi mensili; per assegni oltre i 10.000 euro mensili si sale a centoquindicimila euro nell’arco del decennio.
L’effetto combinato dei tagli, del blocco parziale e della mancata indicizzazione reale colpisce circa il 22% dei pensionati, ossia chi riceve importi superiori a quattro volte il minimo. Questi cittadini sono i maggiori contribuenti IRPEF della categoria (62% del totale), ma risultano i più penalizzati da una serie di manovre fiscali e previdenziali che fanno leva proprio sulla categoria dei redditi medi e alti.
Il drenaggio fiscale e la tassazione superiore alla media europea aggravano ulteriormente la perdita, tanto che, secondo le renti analisi, anche chi percepisce pensioni più basse subisce comunque una riduzione strutturale delle risorse. Questo impoverimento si traduce in minor capacità di sostenere le spese essenziali e in una crescente insicurezza sulla stabilità futura degli assegni.
L’erosione del reddito pensionistico ha effetti tangibili nella vita di tutti i giorni. Le analisi UILP mostrano che nel 2014 con una pensione media si potevano acquistare più beni e servizi rispetto a oggi. Ad esempio, con una pensione netta di 1.738 euro era possibile comprare 1.931 caffè al bar; dieci anni dopo, con la stessa pensione rivalutata a 2.002 euro, si arriva a soli 1.668 caffè, 262 in meno ogni anno. Lo stesso andamento si osserva per carne, latte, giornali e altri beni di largo consumo.
Secondo CER e associazioni, i costi per le spese mediche, energetiche e alimentari hanno subìto aumenti maggiori rispetto agli indici di riferimento. Per molte famiglie di pensionati questo implica:
Il triennio 2023-2025 ha segnato il periodo più oneroso per i possessori di assegni superiori a 2.500 euro lordi, a causa della cosiddetta “fiammata inflazionistica” e delle nuove modalità di rivalutazione decise dalle recenti Manovre finanziarie. Per gran parte degli assegni medi e alti, l’indicizzazione all’inflazione è stata notevolmente ridotta: ad esempio, nel 2023 una pensione da 2.256 euro ha subito su base annua una perdita di circa 436 euro, salita a 723 euro nel 2024 (dati UILP).
L’introduzione di una rivalutazione a percentuali sempre più basse per gli importi maggiori ha causato una perdita strutturale, difficilmente recuperabile negli anni successivi. Il ritorno nel 2025 dello schema a tre fasce (100% fino a quattro volte il minimo, 90% tra quattro e cinque, 75% oltre) apporta solo una parziale mitigazione, poiché il danno degli anni precedenti persiste e si accumula nel tempo.
Guardando al futuro, le proiezioni più attendibili dicono che, se i meccanismi attuali fossero mantenuti, il valore reale delle pensioni potrebbe subire ulteriori riduzioni. Si stima che le perdite potrebbero aumentare di diversi punti percentuali nel prossimo decennio, con un impoverimento difficilmente correggibile con le regole in vigore. La rivalutazione parziale rischia di restare una costante e di aggravare ulteriormente le disparità tra le diverse fasce di pensionati anche in futuro.
Il l tema della legittimità delle riduzioni alle perequazioni è stato molto discusso in sede giuridica, con la Corte Costituzionale più volte chiamata a esprimersi. Tuttavia, l’ultima sentenza n. 19/2025 ha confermato la liceità dei tagli introdotti dalla Manovra 2023, pur raccomandando che tali riduzioni fossero proporzionate, temporanee e non ripetitive.
Al tempo stesso, sono emerse numerose critiche da parte di esperti e associazioni: tali interventi, se protratti e strutturali, rischiano di essere equiparati a una tassa occulta applicata indebitamente anche sulle quote calcolate con il metodo contributivo, per le quali la legge prevede la piena rivalutazione. Numerose osservazioni sottolineano inoltre come, indebolendo la regolare indicizzazione, si riduca la fiducia nella capacità del sistema previdenziale di mantenere le sue promesse.