Chi ha maturato una pensione più bassa nel 2026 prenderà più di chi ha raggiunto importi più alti grazie a integrazioni ed esenzioni fiscali: le simulazioni e l'allarme lanciato dalla Cgil
Nel 2026 il sistema pensionistico italiano mette sempre più in evidenza un’anomalia percepita come ingiusta: esistono pensionati che, pur avendo versato meno contributi rispetto ad altri, finiscono per incassare assegni più consistenti grazie all’applicazione di integrazioni e benefici fiscali esclusivi.
Questa contraddizione nasce dall’attuale struttura normativa che, per arginare la povertà tra gli anziani, riconosce uno scudo economico ai trattamenti più bassi, provocando però squilibri crescenti tra le varie categorie di pensionati. La questione è emersa con forza dopo la pubblicazione degli ultimi dati sulle rivalutazioni automatiche e sugli interventi fiscali collegati alle soglie reddituali.
Il meccanismo che regola l’aggiornamento annuale degli assegni pensionistici si basa sulla cosiddetta "indicizzazione all’inflazione", prevista per assicurare il mantenimento del potere d’acquisto dei pensionati.
Tuttavia, per il 2026 la rivalutazione fissata al 1,4% è ritenuta insufficiente. Nello schema attuale, le rivalutazioni si applicano pienamente solo agli assegni fino a 2.447,39 euro lordi, mentre per gli importi superiori scattano varie penalizzazioni, con percentuali decrescenti (ad esempio, 1,26% tra 2.447 e 3.059 euro, 1,05% sopra questa soglia).
Nel concreto, chi riceve pensioni minime, attestate attorno ai 619,79 euro mensili, dopo l’adeguamento del 2026, avrà incrementi mensili di pochi euro. Una pensione da 1.000 euro sale a 1.014, una da 1.500 raggiunge 1.521 euro e così via.
L’elemento centrale di criticità rimane il rapporto tra perequazione e tassazione: mentre gli assegni più bassi, spesso totalmente esenti da Irpef e addizionali, preservano l’incremento netto, quelli appena superiori subiscono una significativa erosione a opera del fisco.
Gli esperti del settore previdenziale e la CGIL segnalano che questa dinamica vanifica parte degli effetti della rivalutazione, con aumenti tangibili solo per una ristretta fascia di aventi diritto. Infatti, la mancata compensazione rispetto al tasso reale di inflazione vissuto tra 2022 e 2023 ha lasciato i pensionati con incrementi incapaci di colmare le perdite subite.
L’ordinamento italiano prevede strumenti di sostegno supplementare che intervengono specificamente sugli assegni pensionistici inferiori a determinati livelli di sussistenza. Le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali sono destinate a garantire che nessun importo di pensione scenda sotto una soglia ritenuta vitale dallo Stato (attualmente attorno ai 600 euro mensili), a prescindere dalla reale contribuzione maturata.
Le principali tipologie di intervento:
Questi strumenti si fondano sul principio della solidarietà, ma, senza un efficace coordinamento con le regole fiscali e di rivalutazione, finiscono per creare un forte disallineamento tra la quota “previdenziale” e quella assistenziale.
Esistono inoltre situazioni, documentate dalla CGIL e da analisi di diversi centri studi, in cui, tra integrazioni, incrementi e totale esenzione fiscale, la pensione netta aumenta fino a eguagliare o superare l’assegno netto di chi ha lavorato molto di più ma supera, anche di poco, le soglie di no tax area, perdendo così parte dei benefici a causa dell’imposizione fiscale. La crisi di equità derivante è al centro di un dibattito serrato tra istituzioni e parti sociali.
Un punto chiave dell’attuale sistema è rappresentato dal paradosso della no tax area. In Italia, la soglia oltre la quale il reddito pensionistico è sottoposto a imposte dirette è fissata attorno agli 8.500 euro annui.
Chi si colloca al di sotto di questa cifra gode dell’esenzione totale dall’Irpef e dalle addizionali, ricevendo l’assegno lordo “integrale”. Quando invece la pensione supera la soglia, anche solo di poche decine di euro, l'importo subisce decurtazioni progressive dovute alle imposte, facendo sì che l’aumento percepito sia, in realtà, inferiore a quello di chi resta appena sotto la no tax area.
Secondo le stime elaborate dagli uffici previdenza della CGIL, emerge un forte squilibrio:
Le differenze prodotte dai meccanismi di integrazione e dalla normativa fiscale diventano ancor più visibili quando si analizzano i dati messi a disposizione dalla CGIL e da altri osservatori. Di seguito una tabella sintetica che raffronta i casi emblematici:
| Soggetto | Contributi maturati | Pensione lorda | Integrazioni/maggiorazioni | Irpef e addizionali | Pensione netta |
| Pensionato A | 384 € | 384 € | +365 € (integrazione e maggiorazioni) | 0 € (esenzione totale) | 749 € |
| Pensionato B | 692 € | 692 € | nessuna | -38 € (Irpef e addizionali) | 710 € |
Come evidenziano questi dati, chi ha lavorato meno e maturato meno contributi può ricevere, tra integrazioni e benefici fiscali, un assegno superiore (o simile) rispetto a chi ha avuto una carriera lavorativa lunga e costante. Situazioni simili si riscontrano anche con assegni leggermente superiori alla soglia, che vengono “puniti” dall’entrata in vigore della tassazione e dalla perdita delle integrazioni.
Le simulazioni dimostrano che il sistema premia la permanenza nella fascia tutelata anche a scapito di maggiori sacrifici contributivi. Di fatto, il principio secondo cui più si versa più si riceve viene costantemente eroso, portando ad effetti sorprendenti nell’assegno pensionistico finale.
Secondo la CGIL, risultano urgentemente necessari interventi per l’allargamento della no tax area e il rafforzamento degli strumenti di sostegno reale ai pensionati, soprattutto in un contesto in cui la perdita di potere d’acquisto, dovuta anche all’inflazione, si somma alla progressiva riduzione degli importi netti percepiti dopo la tassazione. In mancanza di una riforma strutturale, il rischio concreto è quello di acuire tensioni sociali e alimentare sfiducia nei confronti delle istituzioni.