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Pensioni, età uscita cambia anche in base ai redditi e stipendi guadagnati. Calcolo, esempi e simulazioni

di Marianna Quatraro pubblicato il
 Pensioni eta uscita cambia anche in bas

L'uscita dal lavoro dipende non solo da requisiti anagrafici e contributivi ma anche dai redditi guadagnati e penalizza chi ha stipendi più bassi: le recenti analisi

L’evoluzione delle regole previdenziali negli ultimi anni sta rimodellando le prospettive di uscita dal lavoro, rendendo il raggiungimento della pensione sempre più condizionato da una molteplicità di fattori. A mutare, infatti, non sono solo i requisiti anagrafici e contributivi: il livello dei redditi e dei salari percepiti nel corso della vita lavorativa esercita un impatto decisivo sulle tempistiche dell’accesso al trattamento pensionistico.

La variabilità della retribuzione annuale, la discontinuità delle carriere e la tipologia di contratto possono determinare significativi slittamenti dell'età di pensionamento effettiva. Questo scenario mette al centro della discussione la vulnerabilità dei lavoratori con redditi bassi, costretti spesso a prolungare l’attività per maturare i requisiti necessari. 

Come cambiano i requisiti per l’uscita: età, contributi e il ruolo di stipendio e reddito

Per andare in pensione di vecchiaia è necessario raggiungere 67 anni di età e aver maturato almeno 20 anni di contributi. Tuttavia, dal 2027, secondo il meccanismo automatico di adeguamento all’aspettativa di vita, l’età richiesta crescerà progressivamente: di un mese nel 2027 e di altri due mesi nel 2028, attestandosi a 67 anni e tre mesi.

Ma non è solo il fattore anagrafico a incidere. Il sistema contributivo obbliga a considerare anche lo stipendio annuale percepito: perché ogni anno sia riconosciuto per intero dalla previdenza, il lavoratore deve aver versato contributi su una retribuzione pari almeno al 40% della pensione minima. 

Di conseguenza, chi riceve un compenso annuo inferiore, o lavora soltanto pochi mesi all’anno con contratti part-time involontari o discontinui, non riesce a maturare 12 mesi pieni di contribuzione. Per questi soggetti, il tempo effettivo per arrivare alla pensione si allunga oltre i requisiti minimi teorici, perché gli anni cosiddetti “vuoti” vanno compensati con ulteriori periodi lavorativi, ritardando così l’uscita dal mondo del lavoro.

Il minimale contributivo: perché chi guadagna meno dovrà lavorare di più per la pensione

Il concetto di minimale contributivo è centrale nell’attuale sistema previdenziale italiano: solo chi percepisce una remunerazione almeno pari a tale soglia vede riconosciuto un anno intero di contributi utili al calcolo e all’accesso alla pensione. Nel 2025, il limite è fissato a 241,36 euro lordi per ciascuna settimana, che su base annua corrisponde a circa 12.551 euro.

Questa regola penalizza chi lavora in modo saltuario, chi svolge attività stagionali o part-time involontari e chi, per varie ragioni, non riesce a garantire la continuità lavorativa. Nonostante la presenza di un contratto anche per tutto l’anno, se il salario complessivo rimane al di sotto del minimale, l’INPS non riconosce i 12 mesi di contribuzione. Di fatto, questi lavoratori vedono "erosi" diversi mesi di anzianità contributiva ogni anno e risulta che:

  • Le fasce più basse di retribuzione (fino a 9.999 euro l’anno) coinvolgono milioni di individui, con una copertura contributiva spesso inferiore ai 12 mesi annui.
  • Il fenomeno interessa circa il 30-35% dei dipendenti privati, stando alle ultime analisi sindacali.
Una delle conseguenze più rilevanti di questo meccanismo riguarda il periodo aggiuntivo necessario per "recuperare" il mancato accredito annuale: a salari più bassi, corrisponde un allungamento proporzionale della vita lavorativa, con differenze che possono raggiungere anche un anno o più, a parità di condizioni pensionistiche anagrafiche e contributive.

Analisi CGIL: effetti delle nuove regole su lavoratori con bassi redditi, part-time e carriere discontinue

L’Osservatorio Previdenza della CGIL ha posto l’accento sulle ricadute delle nuove regole soprattutto sulle fasce più fragili del mondo del lavoro: coloro che hanno alle spalle impieghi precari, contratti a termine, carriere a intermittenza e, in generale, redditi inferiori ai 15.000 euro.

Secondo le analisi sindacali, chi si posiziona sotto il minimale contributivo rischia di dover lavorare diversi mesi in più rispetto a quanto sarebbe previsto secondo i soli requisiti anagrafici. Per esempio:

  • Lavoratori con 8.000 euro annui hanno bisogno, nel 2028, di circa un mese e una settimana in più oltre ai tre mesi di innalzamento stabiliti per legge;
  • Con 5.000 euro annui i mesi extra necessari salgono a quasi due nello stesso periodo, e possono crescere ulteriormente negli anni successivi all'aumentare dei requisiti.
Il fenomeno dei cosiddetti “working poor”, cioè chi lavora senza riuscire a costruirsi una pensione dignitosa, interessa una platea stimata in oltre 5-6 milioni di persone, prevalentemente giovani, donne, lavoratori part-time involontari.

Simulazioni pratiche: esempi di calcolo e impatto su diverse fasce di reddito

Per meglio comprendere l’impatto reale delle nuove regole sul calcolo della pensione, può essere utile riferirsi ai dati riportati da CGIL e INPS:

Reddito annuo Mesi extra di lavoro richiesti (2028) Mesi extra nel 2040 Mesi extra nel 2050
5.000 euro quasi 2 oltre 7 oltre 13
8.000 euro 1 e 1 settimana quasi 5 oltre 8

Questi numeri evidenziano mostrano che, con il passare degli anni, la forbice rischia di allargarsi ulteriormente fino a superare anche i dodici mesi. La situazione peggiora in mancanza di rinnovi contrattuali o di adeguamenti dei salari al costo della vita, mentre il valore del minimale contributivo cresce ogni anno in risposta all'inflazione.

 

 



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