Se fino agli anni 90 l’edilizia abitativa era spesso legata all’intervento pubblico, oggi lo scenario è ribaltato.
C'è un paradosso che segna un’epoca. Le città sono piene di edifici nuovi, cantieri in corso, promesse architettoniche futuristiche. Eppure abitare uno di questi spazi è diventato quasi impossibile per una fascia in crescita della popolazione. Il sogno dell’acquisto si dissolve nella realtà di stipendi stagnanti e mutui irraggiungibili, mentre anche affittare una casa implica un sacrificio mensile che supera spesso il 50% delle entrate familiari.
Questa difficoltà ha radici profonde. L’aumento del costo degli immobili non è più determinato soltanto dal mercato locale, dalla disponibilità di suolo o dai flussi migratori. A giocare un ruolo centrale è ormai il capitale finanziario globale, che ha trasformato le abitazioni da beni di prima necessità a strumenti di rendita. Secondo dati del Guardian, tra il 2008 e il 2023 gli investimenti istituzionali nel settore immobiliare sono cresciuti da 385 miliardi a oltre 1.700 miliardi di dollari, una dinamica alimentata da anni di tassi bassi e politiche monetarie espansive.
Quando fondi di investimento, compagnie assicurative e banche acquistano in massa interi complessi edilizi, lo fanno con l’obiettivo di trarre profitto, non certo di soddisfare un bisogno abitativo. Così, la disponibilità reale di case accessibili diminuisce, mentre l’offerta si orienta verso formule ad alta redditività: microliving, co-living, build-to-rent.
Se fino agli anni 90 l’edilizia abitativa era spesso legata all’intervento pubblico, oggi lo scenario è ribaltato. Paesi come Germania, Svezia, Irlanda e anche Italia hanno favorito una liberalizzazione del patrimonio immobiliare. Interi quartieri popolari sono stati svenduti, privatizzati, deregolamentati. Gli attori principali del nuovo mercato abitativo sono entità come Blackstone, Cerberus, Vonovia: colossi che accumulano portafogli immobiliari giganteschi, spesso ignorando le esigenze locali.
Questi fondi non cercano una rendita lenta e costante. Puntano a massimizzare i ritorni nel più breve tempo possibile, anche a costo di adottare pratiche borderline. Una delle più discusse è la “renoviction”: sfrattare gli inquilini con il pretesto della ristrutturazione per poi rialzare il canone. Oppure si riducono i servizi, si taglia sulla manutenzione, si applicano costi occulti. Il tutto nel silenzio, grazie a una normativa spesso piegata agli interessi finanziari e a una rappresentanza degli inquilini debole o assente.
Non si tratta di una semplice distorsione del mercato. È un modello sistemico in cui i governi, anziché contrastare la finanziarizzazione del settore, la facilitano. Sussidi agli investitori, agevolazioni fiscali, liberalizzazione del credito: tutte misure che hanno spostato il baricentro del potere abitativo verso la finanza. Il risultato è che la casa non è più un diritto ma un prodotto finanziario. E come tale, segue logiche che nulla hanno a che vedere con la dignità abitativa.
Questa crisi non riguarda solo i cosiddetti vulnerabili. Colpisce giovani, famiglie monoreddito, lavoratori precari, professionisti autonomi. In molte città europee, una famiglia media non può più permettersi nemmeno un bilocale. L’effetto domino è evidente: le classi medie si impoveriscono, le periferie si saturano, cresce la rabbia nei confronti delle istituzioni. E, come ha detto il sindaco di Barcellona Jaume Collboni, “se le democrazie non risolvono il problema casa, perderanno la fiducia dei cittadini”.
In questo scenario, il diritto all’abitazione non è più solo un problema sociale, ma un test di tenuta democratica. Chi possiede immobili accumula potere, chi non possiede resta in una condizione di dipendenza economica. Il rischio di marginalizzazione è concreto, alimentando derive estreme e sfiducia nelle istituzioni. I dati confermano che le aree colpite da forte tensione abitativa coincidono con la crescita del voto populista ed estremista, come in Germania e nei Paesi Bassi.
È possibile invertire la rotta? La risposta non può essere affidata solo al mercato. Serve un intervento pubblico deciso, con investimenti in edilizia popolare e sociale, regole più severe per i grandi proprietari, tetti agli affitti e alla concentrazione della proprietà. Alcuni Paesi stanno già sperimentando queste soluzioni: i Paesi Bassi hanno introdotto limiti agli investitori esteri, la Danimarca ha rafforzato i vincoli sugli acquisti multipli. Ma è ancora troppo poco. Occorre un cambio di paradigma in tutta Europa, per restituire la casa alla sua funzione originaria: abitare, non arricchire.