I buoni pasto spettano a tutti i lavoratori che prestino servizio oltre le sei ore giornaliere, valorizzandone la funzione sociale e assistenziale: cosa stabilisce la nuova sentenza della Cassazione
I recenti orientamenti della Corte di Cassazione hanno ridefinito, con precisione normativa, il diritto dei dipendenti a ricevere i buoni pasto. Secondo la più autorevole giurisprudenza, il riconoscimento di questi titoli non deve più sottostare a interpretazioni restrittive basate sulla tipologia di turno o sulla modalità di erogazione della pausa pranzo. Viene così rafforzato il principio secondo cui i lavoratori che superano le sei ore quotidiane di servizio hanno diritto ad accedere a questa misura di welfare aziendale che tutela il benessere e l’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa.
Con la sentenza n. 25525 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che il buono pasto è un diritto legato alla pausa dopo 6 ore di lavoro, senza distinzione tra turnisti e non.
Secondo i giudici, il buono pasto non è, infatti, un beneficio legato al tipo di orario, ma un diritto relativo alla durata della prestazione lavorativa e alla necessaria fruizione di una pausa per recuperare le energie psicofisiche, quindi si configura come un’agevolazione di carattere assistenziale.
La questione giuridica che ha portato al nuovo indirizzo della Cassazione nasce da una vertenza dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, contraria all’obbligo di riconoscere il buono pasto a tutti i dipendenti con orario superiore alle sei ore. La controversia verteva sulla presunta differenza tra lavoratori turnisti e non turnisti: i primi spesso impossibilitati a prendersi una classica pausa pranzo, i secondi invece più facilmente beneficiari di interruzioni programmate. L’Asp sosteneva la non spettanza per i turnisti, argomentando sulla base della continuità del servizio.
Con la pronuncia n. 25525/2025, la Cassazione afferma con chiarezza che il riconoscimento dei buoni pasto è dovuto a tutti i lavoratori subordinati che prestino servizio oltre le sei ore giornaliere, indipendentemente dal fatto che il lavoro sia organizzato su turni continuativi oppure preveda pause programmate. La Suprema Corte, valorizzando la funzione sociale e assistenziale dei buoni pasto, supera la distinzione fra categorie di personale, considerando la pausa non più esclusivamente come elemento di fatto, ma come diritto conseguente al superamento della soglia oraria indicata dalla normativa.
Il giudizio degli Ermellini respinge l’ipotesi secondo cui la spettanza del buono pasto andrebbe circoscritta solo ai lavoratori non turnisti con effettiva interruzione del servizio. Ciò che rileva è la necessità per tutti di poter recuperare energie, per motivi di salute e sicurezza, dopo un periodo di lavoro prolungato, secondo quanto previsto sia dalle norme nazionali che dalla contrattazione collettiva. Di conseguenza:
Il principio affermato vuole evitare che il dipendente sia disincentivato a godere delle ferie per il timore di perdere parte del proprio trattamento economico. Tale impostazione prevede che durante le ferie: