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Pensioni e tasse 2026, anche quest'anno gli aumenti già minimi sono erosi dalle tasse: simulazioni con esempi concreti

di Marianna Quatraro pubblicato il
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Aumentano le pensioni nel 2026 per effetto della rivalutazione e degli incrementi per gli assegni minimi ma si tratta di aumenti irrisori che non aiutano davvero i pensionati a vivere meglio: gli esempi

Nel contesto economico attuale, la questione dell’adeguamento degli assegni pensionistici e della pressione fiscale emerge con una rinnovata urgenza. Gli aggiornamenti previsti per il prossimo anno puntano a compensare in parte l’erosione del potere d’acquisto accumulata negli anni precedenti, ma la rivalutazione programmata risulta esigua, mentre la tassazione continua a pesare in maniera significativa sulle prestazioni. 

Aumenti delle pensioni nel 2026: la rivalutazione dell’1,4% e la suddivisione in fasce

La rivalutazione delle pensioni per il 2026 si basa su un indice di rivalutazione fissato all’1,4%, come stabilito dal decreto emanato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Questo adeguamento, calcolato in base ai dati ISTAT sull’inflazione dell’anno precedente, si innesta su un sistema articolato in tre fasce di trattamento.

  • Fino a 4 volte il minimo INPS (603,40 euro): adeguamento pari al 100% dell’inflazione rilevata.
  • Tra 4 e 5 volte il minimo: rivalutazione riconosciuta al 90%.
  • Oltre 5 volte il minimo: incremento limitato al 75% della percentuale ufficiale.
Questa suddivisione, istituita per mantenere l’equilibrio dei conti pubblici, comporta che l’incremento pieno riguardi solo le pensioni di importo più basso, mentre per gli assegni superiori la percentuale effettiva scende sensibilmente.

Secondo le simulazioni, il trattamento minimo dovrebbe assestarsi intorno a 619,79 euro mensili lordi, con una crescita di appena 3 euro rispetto all’anno precedente. Allo stesso modo, valori più significativi si osservano solo sulle pensioni di importo medio-alto, che però subiscono una riduzione percentuale più marcata rispetto al parametro ufficiale dell’1,4%.

La struttura della perequazione a fasce, mai messa in discussione negli ultimi anni, continua a penalizzare parzialmente i titolari di pensioni superiori al minimo

L’impatto delle tasse sugli aumenti: quanto viene realmente eroso dall’Irpef

Se da un lato la rivalutazione risulta insufficiente rispetto al recupero del potere d’acquisto, il peso della pressione fiscale risulta ancora più evidente osservando il meccanismo di prelievo dell’Irpef. Gli effetti dell’imposizione fiscale sono maggiormente avvertiti per tutte le pensioni che superano la cosiddetta “no tax area” di 8.500 euro lordi annui, soglia al di sotto della quale non sono previste trattenute.

Guardando ai dati elaborati dagli uffici previdenza dei sindacati, emerge che l’aumento effettivo dell’assegno netto risulta pesantemente ridotto rispetto a quanto previsto sulla carta. Le aliquote medie, per quasi tutte le fasce reddituali, sono cresciute dal 2022 al 2026:

  • Pensioni lorde di 800 euro: aliquota media passata dal 5,38% all’8,78%.
  • Pensioni lorde di 1.000 euro: aliquota in crescita dal 10,19% al 12,91%.
  • Pensioni lorde di 1.500 euro: pressione fiscale aumentata dal 17,07% al 18,42%.
Questo comporta che, mentre l’adeguamento formale raggiunge l’1,4%, il vantaggio reale per il pensionato si traduce in incrementi spesso poco percepibili o nulli. L’effetto delle trattenute, infatti, erode gran parte dei miglioramenti previsti, rendendo il meccanismo di rivalutazione più un recupero di gettito fiscale per lo Stato che un effettivo beneficio per i destinatari delle pensioni.

Le principali organizzazioni sindacali sottolineano, inoltre, che questo gap tra incremento lordo e netto non solo mina la fiducia nella capacità del sistema di tutelare gli equilibri sociali, ma finisce anche per accentuare le distanze economiche tra differenti categorie di pensionati.

Simulazioni ed esempi concreti: l’aumento minimo nelle pensioni nette e lorde

Per una comprensione più immediata delle conseguenze della rivalutazione 2026, è possibile fare riferimento a simulazioni basate sui principali scaglioni di importo pensionistico, tenendo conto sia degli incrementi lordi che di quelli netti, dopo la tassazione Irpef.

Pensione di partenza (2025) Importo lordo 2026 Importo netto 2026 Aumento mensile netto
616,67 € (minima) 619,79 € 619,79 € +3,12 €
800 € 932 € 850 € +9 €
1.000 € 1.165 € 1.014 € +11 €
1.500 € (lordo) --- --- +17 €
2.000 € 2.329 € 1.824 € +26 €

L’esame delle tabelle INPS e delle stime della CGIL mette in evidenza che gli aumenti reali sono decisamente differenti dalle aspettative, se si considerano i rincari dei beni di prima necessità e la perdita cumulata di potere d’acquisto registrata tra il 2022 e il 2023. In media, se a livello lordo la crescita dal 2022 al 2026 arriva al +16,46%, una volta applicate tutte le trattenute, gli incrementi effettivi sono spesso inferiori al 13%.

Ad esempio, un assegno lordo di 1.000 euro che sale a 1.165 euro (+16,46%) comporta un aumento netto di soli 116 euro mensili dal 2022 al 2026 (da 898 a 1.014 euro, ovvero +12,93%). Per importi più elevati, il fenomeno si conferma: una pensione di 2.000 euro lordi (che raggiunge 2.329 euro nel 2026) aumenta in termini netti solo da 1.591 a 1.824 euro (+14,68%).

Le pensioni minime: il problema degli aumenti simbolici

Nell’attuale scenario previdenziale, particolare attenzione merita l’analisi degli importi minimi. Secondo le stime dei tecnici sindacali, la pensione minima salirà da 616,67 a 619,79 euro lordi, facendo segnare un incremento di appena 3,12 euro al mese a fronte delle esigenze di spesa e dei rincari vissuti negli ultimi anni.

Per gli assegni minimi, il beneficio indotto dalla rivalutazione, già contenuto dall’1,4%, risulta praticamente azzerato dalla pressione fiscale e dalle addizionali comunali e regionali. La situazione appare ancora meno sostenibile se si tiene conto che nel biennio 2022–2023 la perdita di potere d’acquisto ha superato il 10% su gran parte dei trattamenti, vanificando il senso stesso dell’adeguamento all’inflazione.

I sindacati giudicano «assolutamente insufficiente» la politica di aggiornamento attuale e rilevano come l’oscillazione di pochi euro lasci del tutto invariata la condizione di fragilità economica per centinaia di migliaia di pensionati italiani. Alle proteste di rappresentanza si uniscono le analisi secondo cui la no tax area ancora ferma a 8.500 euro annui rappresenta una delle maggiori criticità normative, rendendo di fatto inapplicabile una reale tutela delle fasce più deboli tramite la fiscalità diretta.

Analisi CGIL e SPI: criticità del sistema e richieste dei sindacati

L’analisi condotta dalle principali sigle sindacali, basata sulle rilevazioni degli scorsi mesi, fornisce un giudizio severo sull’impianto attuale della rivalutazione e sulla reale incidenza fiscale.

Secondo CGIL e SPI, la percentuale di perequazione prevista non è in grado di rispondere alla perdita di capacità di spesa subita nel biennio 2022–2023.

I sindacati chiedono una revisione della struttura delle fasce e delle soglie di esenzione fiscale, suggerendo l’adeguamento della no tax area e la piena rivalutazione degli importi per garantire giustizia sociale e mantenimento di un adeguato valore reale degli assegni.

La piattaforma rivendicativa presentata negli ultimi mesi mette al centro la necessità di un meccanismo di adeguamento che sia realmente efficace e non generi ulteriori disuguaglianze tra categorie di pensionati. L’insufficienza degli incrementi non rappresenta solo una questione tecnica, ma pone una questione di equità nell’accesso alle risorse, sottolineando ancora una volta la necessità di misure strutturali piuttosto che interventi limitati ad aggiustamenti temporanei.