Il meccanismo di adeguamento delle prestazioni pensionistiche all’inflazione rappresenta da sempre un elemento centrale del sistema previdenziale italiano, influendo direttamente sul potere d’acquisto di milioni di pensionati. In tempi caratterizzati da un’inflazione variabile, la modalità con cui vengono aggiornati gli assegni previdenziali si trasforma in un argomento di dibattito pubblico e istituzionale, sia per gli effetti sull’economia familiare dei beneficiari che per le ripercussioni sui conti dello Stato. Le sentenze della Corte Costituzionale pronunciate negli ultimi anni, in particolare quella recente, hanno ribadito la liceità di meccanismi che limitano la rivalutazione per le fasce di pensione più elevate.
Come funziona la rivalutazione delle pensioni: meccanismi e percentuali per fasce di reddito
L’adeguamento delle pensioni all’andamento dell’inflazione, noto come rivalutazione o perequazione automatica, è regolato da una serie di disposizioni che ne determinano l’applicazione su base annuale.
Il principio generale stabilisce che le pensioni vengano aggiornate a gennaio di ogni anno in base ai dati forniti dall’ISTAT sull’inflazione dell’anno precedente. Tuttavia, il sistema non si applica in modo omogeneo su tutti gli importi, ma prevede percentuali differenziate secondo il valore dell’assegno, realizzando così una rivalutazione articolata in fasce di reddito. Nel dettaglio, la normativa attualmente in vigore prevede:
- Rivalutazione piena (100%) per i trattamenti fino a quattro volte il minimo INPS (pari a circa 2.394,44 euro lordi mensili nel 2025).
- Rivalutazione al 90% per la parte di pensione compresa tra quattro e cinque volte il minimo (da 2.394,44 a 2.993,05 euro lordi).
- Rivalutazione al 75% per importi superiori a cinque volte il minimo (oltre 2.993,05 euro lordi al mese).
La logica di questa articolazione risiede nell’intento di concentrare la protezione dal rischio inflattivo principalmente sulle
fasce più deboli della popolazione pensionata, andando progressivamente a ridurre la tutela per chi percepisce assegni più elevati. Dal punto di vista pratico,
il calcolo della rivalutazione si applica attraverso tre scaglioni:
| Scaglione |
% rivalutazione 2025 |
| Fino a 4x il minimo |
100% dello 0,8% |
| Da 4x a 5x il minimo |
90% dello 0,8% |
| Oltre 5x il minimo |
75% dello 0,8% |
A titolo esemplificativo:
- Un assegno di 1.000 euro mensili salirà a 1.008 euro.
- Un importo di 2.000 euro verrà aggiornato a 2.016 euro.
- Un trattamento di 3.000 euro, che supera più scaglioni, si rivaluterà sulla quota fino a 2.394,44 euro al tasso pieno, da questa cifra a 2.993,05 euro al 90% e sulla parte superiore al 75%.
Queste regole stabiliscono di fatto una
rivalutazione ridotta per una platea limitata di pensionati, circa 400.000 su oltre 16 milioni secondo le stime più recenti.
Le modifiche alla perequazione 2023-2025: il quadro normativo e cosa è cambiato per i pensionati
Nel triennio 2023-2025, il meccanismo della rivalutazione ha subito un’ulteriore rimodulazione in risposta alle esigenze di bilancio del Paese e all’incremento repentino dell’inflazione. La Manovra Finanziaria 2023 ha ridotto parzialmente l’adeguamento per le pensioni oltre una certa soglia. Durante questo periodo si è assistito a:
- Rivalutazione piena solo fino a quattro volte il trattamento minimo.
- Riduzione graduale per gli importi superiori, con percentuali così differenziate per il 2023 e il 2024: 85%, 53%, 47%, 37% e 32% a seconda delle fasce di reddito sempre più elevate.
Ad esempio, nel 2023 una pensione tra quattro e cinque volte il minimo ha beneficiato dell’85% dell’adeguamento ISTAT, mentre sopra le dieci volte il minimo la percentuale è scesa al 32%. Queste misure sono state motivate dalla
necessità di salvaguardare la sostenibilità finanziaria dello Stato in una fase di elevato indebitamento pubblico e di crescita dei costi della previdenza.
Dall’anno 2024 si è osservato un ritorno a un modello più semplice, sebbene sempre parzialmente ridotto per le fasce più alte, prevedendo tre sole aliquote: 100% fino a quattro volte il minimo, 90% tra quattro e cinque volte, 75% oltre. Le variazioni introdotte in questi anni hanno avuto un impatto rilevante sul potere d’acquisto degli assegni più consistenti, generando numerosi ricorsi e forti discussioni tra categorie di lavoratori, sindacati ed esperti di previdenza.
La sentenza n. 167/2025: cosa ha deciso la Corte Costituzionale sulla legittimità del taglio della rivalutazione
Con la sentenza n. 167 del 13 novembre 2025, la Corte Costituzionale ha affrontato il ricorso contro l’ultima normativa in materia di perequazione. Il contendere era la scelta di modulare la rivalutazione non più solo a “scaglioni” (come in passato), ma sull’intero assegno, con forti riduzioni per pensioni di valore elevato.
In particolare, per i giudici, la rivalutazione ridotta delle pensioni più elevate non è una tassa e quindi non viola i principi costituzionali di eguaglianza tributaria, ragionevolezza e temporaneità. Hanno, inoltre, chiarito che la scelta di differenziare il trattamento in base all’importo della pensione è considerata ragionevole, poiché le pensioni più elevate hanno una maggiore resistenza all’erosione dell’inflazione, confermando che il meccanismo potrà esserci anche nel 2026
La sentenza ha stabilito che:
- La perequazione non configura un diritto assoluto e intangibile, ma uno strumento di tutela che può essere modulato secondo criteri di ragionevolezza.
- La riduzione della rivalutazione non incide sull’importo nominale degli assegni, ma solo sulla misura degli aumenti, e rientra nella logica di una distribuzione equa degli oneri, proteggendo le fasce più deboli.
- L’intervento è giustificato dall’interesse pubblico all’equilibrio finanziario del sistema previdenziale e alla tutela dei diritti delle future generazioni.
Le motivazioni della Consulta: ragionevolezza, proporzionalità e finalità di interesse pubblico
Alla base della pronuncia della Consulta si rintracciano motivazioni che ruotano attorno a tre concetti chiave:
- Ragionevolezza: secondo i giudici, la divergenza nell’adeguamento fra le diverse fasce reddituali risponde a criteri logici e non è arbitraria. L’intervento del legislatore si giustifica nella misura in cui non sacrifica gli assegni di modesta entità, lasciando invariato il potere d’acquisto delle pensioni più basse.
- Proporzionalità: la riduzione degli aumenti si applica in modo progressivo, interessando solo gli assegni che hanno già una forte stabilità di reddito, senza intaccare il principio di sufficienza previsto dalla Costituzione.
- Finalità di interesse pubblico: l’obiettivo dichiarato è evitare squilibri nei conti pubblici, salvaguardando al contempo le garanzie sociali minime.
Reazioni e critiche alla sentenza: il punto di vista di sindacati, categorie e osservatori
La pronuncia della Corte ha generato reazioni contrastanti tra le organizzazioni sindacali, le associazioni di categoria e numerosi osservatori. Da un lato, molti rappresentanti dei pensionati contestano l’approccio della Consulta, ritenendo che penalizzare sistematicamente le fasce medio-alte sia contrario ai principi di certezza del diritto e di uguaglianza tra i cittadini. I principali sindacati, tra cui la Cgil, hanno espresso
preoccupazione per la perdita di potere d’acquisto di una parte significativa dei pensionati, pur rappresentando una minoranza rispetto al totale.
Tra le obiezioni più frequenti:
- Il timore che la rivalutazione ridotta si trasformi in una prassi permanente, al di là delle emergenze di bilancio.
- L’accusa allo Stato di “fare cassa” sulle pensioni, utilizzandole come leva per il contenimento della spesa pubblica.
- L’impressione che l’intervento finisca per colpire soprattutto chi ha contribuito a lungo e in misura rilevante al sistema previdenziale.