La prima ragione che spinge le aziende a preferire le dimissioni al licenziamento è di natura economica.
Anche se il licenziamento è lo strumento previsto dalla legge per interrompere unilateralmente un rapporto da parte del datore, in molti casi sono le dimissioni volontarie del lavoratore a essere incoraggiate (se non sollecitate) dalle aziende.
Non si tratta di una questione formale: il modo in cui termina un contratto di lavoro influisce sulle tutele previdenziali, sulle indennità spettanti al lavoratore e sugli oneri fiscali a carico del datore. Per questo motivo, dietro la scelta di favorire le dimissioni piuttosto che assumersi la responsabilità di un licenziamento ci sono ragioni che vanno dalla semplificazione amministrativa al risparmio economico diretto. Cerchiamo di capire:
Nel 2025 il contributo massimo dovuto a titolo di ticket supera i 1.920 euro per lavoratore. Ed è dovuto a prescindere dal fatto che il dipendente faccia domanda di disoccupazione o meno. Il licenziamento comporta il rispetto di procedure formali obbligatorie, come la comunicazione scritta, l'indicazione della causale e l'eventuale attivazione della procedura disciplinare, con possibilità di replica da parte del lavoratore. In assenza di un valido motivo, il rischio per l'azienda è di incorrere in impugnazioni e richieste di reintegro o risarcimento danni.
Tutto questo comporta tempi lunghi, margini di conflitto e un esborso economico certo. Al contrario, una dimissione volontaria è un atto unilaterale del lavoratore, non necessita motivazioni né documentazioni complesse, non richiede alcun contributo aggiuntivo da parte del datore e chiude ogni contenzioso sul nascere.
La legge vieta ogni forma di intimidazione o costrizione per indurre un lavoratore a dimettersi, nella pratica le aziende mettono in atto tecniche più o meno esplicite per ottenere questo risultato. Si va dai suggerimenti ambigui fino a promesse non vincolanti di una futura riassunzione, magari dopo un periodo di pausa o ristrutturazione aziendale.
In alcuni casi si verificano situazioni più gravi, dove il dipendente viene lasciato ai margini del flusso operativo, escluso dalle riunioni, privato di strumenti fondamentali o sottoposto a critiche e svalutazioni. Questo tipo di comportamento, se sistematico, configura un mobbing lavorativo, che è sanzionabile anche in sede penale o civile. In altri casi ancora, il dipendente viene lasciato a secco di compiti, isolato fino al punto da sentirsi costretto a lasciare per sfinimento.
Il rischio è che il lavoratore firmi le dimissioni sotto pressione, senza rendersi conto che sta rinunciando non solo al diritto alla Naspi (salvo giusta causa) ma anche alla possibilità di impugnare eventuali irregolarità. Proprio per questo, in base alla giurisprudenza italiana, le dimissioni forzate o estorte con mezzi illeciti sono considerate nulle e trattate come un licenziamento illegittimo. Il lavoratore può così rivolgersi al giudice del lavoro per ottenere l'annullamento dell'atto e il riconoscimento del risarcimento o del reintegro.
Un altro elemento che ha modificato il panorama è l'introduzione, tramite il Collegato Lavoro 2025, della dimissione per fatti concludenti. Questa novità normativa prevede che il dipendente che si assenta ingiustificatamente per un determinato periodo di tempo, senza fornire spiegazioni plausibili, venga considerato dimissionario a tutti gli effetti. Questa misura è stata pensata per contrastare il fenomeno dei lavoratori che, per evitare di doversi dimettere e perdere così il diritto alla disoccupazione, non si presentano al lavoro sperando in un licenziamento disciplinare che gli garantisca l'accesso alla Naspi.
La nuova norma ribalta questa logica: chi sparisce senza preavviso non verrà più licenziato, ma trattato come se avesse abbandonato il posto volontariamente, sollevando così l'azienda da ogni onere, compreso il ticket.