I contribuenti italiani pagano tante tasse in Italia per coprire i milioni di euro evasi da altri
La pressione fiscale rappresenta uno degli argomenti più dibattuti nel panorama economico italiano. I dati mostrano come il carico tributario gravi in modo significativo soprattutto sui soggetti che regolarmente adempiono agli obblighi fiscali, evidenziando una situazione di disparità che si manifesta ogni anno attraverso decine di scadenze fiscali e adempimenti burocratici stringenti.
Questo scenario si traduce in una realtà nella quale, secondo recenti studi della Cgia di Mestre, circa 156 giorni all’anno vengono impiegati dai contribuenti solo per coprire le richieste dello Stato, prima di iniziare a lavorare per sé stessi e le proprie famiglie. La causa principale risiede nella presenza massiccia di evasione fiscale, che impone agli onesti un onere aggiuntivo.
Uno degli indicatori più intuitivi della pressione tributaria è la data simbolica in cui un contribuente medio termina di "lavorare per lo Stato" e inizia a guadagnare per sé stesso. Nel 2025, secondo la Cgia di Mestre, tale data è stata fissata al 6 giugno, dopo un computo di 156 giorni, circa 5 mesi. Questo valore rappresenta un record storico e segnala che una fetta rilevante dell’anno viene dedicata a soddisfare le esigenze del fisco.
Il calcolo, benché teorico, serve a rendere evidente quanto il livello di tassazione ordini la vita economica del cittadino. Oltre a imposte dirette come Irpef e Ires, i calcoli comprendono anche i prelievi previdenziali, le addizionali locali e le imposte indirette, rendendo una visione d’insieme particolarmente incisiva. I restanti 209 giorni dell’anno sono, invece, dedicati al lavoro per il sostentamento proprio e familiare.
Il peso fiscale italiano è determinato da un insieme di elementi strutturali e congiunturali. Il debito pubblico resta uno dei principali vincoli: ogni anno una quota rilevante delle entrate viene destinata al pagamento degli interessi, limitando i margini di intervento su investimenti e servizi. Nel solo 2025, oltre il 4% del Pil italiano è impegnato per gli interessi sul debito, contro il 2% della Francia.
Le continue riforme fiscali, con frequenti modifiche alle detrazioni Irpef e alle misure per il sostegno al reddito, generano incertezza e spesso redistribuiscono il prelievo tra categorie diverse. Il drenaggio fiscale (fiscal drag) accentua il carico su lavoratori dipendenti e pensionati: a causa della mancata indicizzazione degli scaglioni all’inflazione, i contribuenti si vedono erodere il potere d’acquisto e contribuiscono involontariamente a migliorare i conti dello Stato. Negli ultimi tre anni il drenaggio fiscale ha generato incassi aggiuntivi per circa 25 miliardi di euro.
A complicare ulteriormente il quadro contribuisce la diversità dei regimi fiscali tra autonomi con Partita Iva (molti dei quali usufruiscono della flat tax) e lavoratori dipendenti, con impatti diversi sui livelli di prelievo e sul senso di equità percepito dalla popolazione.
Secondo lo studio Cgia di Mestre, quasi metà anno si lavora per coprire le mancanze provocate alle casse dello Stato degli evasori fiscali: si tratta di circa 2,5 milioni di contribuenti che usufruiscono gratis di servizi come la Sanità Pubblica, l'istruzione di ogni ordine e grado, trasporti e forze dell'ordine.
Dai dati riportati emerge che nel nostro Paese, purtroppo, i contribuenti onesti versano molte tasse perché ci sono tante persone che non le pagano o lo fanno solo parzialmente e sono soprattutto uomini e donne che lavorano completamente in nero o quasi: quando operano in qualità di subordinati non sono sottoposti ad alcun contratto nazionale di lavoro. Se, invece, lavorano in proprio, non aprono la partita Iva.
Nell’attuale struttura produttiva italiana, la piaga dell’evasione fiscale assume dimensioni rilevanti, coinvolgendo vari segmenti della popolazione e diverse aree del territorio nazionale. I dati più recenti presentano uno scenario in cui circa 2,5 milioni di lavoratori risultano occupati irregolarmente, sia in forma subordinata che autonoma, senza contratti regolari né doveri verso l’erario. Questa situazione compromette le entrate dello Stato, incrementando la quota di tasse che deve essere ripartita tra meno contribuenti regolari.
L’evoluzione della pressione fiscale italiana negli ultimi trent’anni mostra una marcata tendenza all’aumento. A metà degli anni Duemila, il carico fiscale toccava il suo minimo recente, attestandosi sul 38,9% del Pil nel 2005. Da quel momento la pressione è cresciuta: nel 2013 ha raggiunto il record negativo del 43,4%. Secondo le previsioni contenute nel Documento di Economia e Finanza (DEF 2025), l’incidenza fiscale per il 2025 sarà pari al 42,7% del Pil, in leggero aumento rispetto all’anno precedente.
Nel confronto europeo, l’Italia occupa la sesta posizione per livello di pressione fiscale, dietro a paesi come Danimarca (45,4%), Francia (45,2%) e Belgio (45,1%). Tuttavia, rispetto ai principali partner europei, la distanza con Germania e Spagna rimane significativa: la pressione fiscale italiana è superiore rispettivamente di 1,8 e 5,4 punti. La media dell’Unione Europea rimane più bassa di 2,2 punti percentuali.
Paese | Pressione fiscale (% Pil) |
Danimarca | 45,4 |
Francia | 45,2 |
Belgio | 45,1 |
Austria | 44,8 |
Lussemburgo | 43,0 |
Italia | 42,6 |
Germania | 40,8 |
Spagna | 37,2 |
Le cause di questa situazione sono riconducibili a diversi fattori: l’alto debito pubblico italiano, la persistente evasione fiscale, le riforme introdotte nel tempo e il cosiddetto fiscal drag.