Dal 2006 il tuo sito imparziale su Lavoro, Fisco, Investimenti, Pensioni, Aziende ed Auto

Risarcimento da stress sul lavoro: condizioni perché sia riconosciuto e chi e cosa si deve provare per Cassazione

di Marianna Quatraro pubblicato il
Risarcimento e Cassazione

Il risarcimento da stress sul lavoro evolve nella giurisprudenza: non serve più il mobbing, ma basta provare singoli atti lesivi. Analisi dei doveri del datore, casi concreti e tutela dei diritti fondamentali.

L'evoluzione del diritto del lavoro ha registrato una svolta in merito alla responsabilità datoriale conseguente ai danni psico-fisici derivanti da ambienti lavorativi stressanti e alla quanto viene pagato. Non è più necessario dimostrare comportamenti di mobbing organizzati o reiterati: la giurisprudenza della Suprema Corte ha reso possibile il riconoscimento di un risarcimento anche quando il danno sia frutto di singoli episodi, o del mantenersi di un ambiente insalubre sotto il profilo relazionale e gestionale.

La protezione della salute dei lavoratori si estende a ogni forma di squilibrio dannoso causato dall'organizzazione aziendale, sottolineando un principio chiave: il dovere di prevenzione e protezione non può essere eluso da mere formalità. Questa prospettiva, alla luce delle nuove interpretazioni dell'articolo 2087 del codice civile, ridisegna l'equilibrio tra poteri datoriali e diritto alla dignità del lavoratore.

Il nuovo quadro giurisprudenziale: risarcimento anche senza mobbing

Gli ultimi interventi giuridici evidenziano una ridefinizione della soglia minima per ottenere tutela e risarcimento in caso di danni da stress sul lavoro. Tradizionalmente, la nozione di mobbing presupponeva la sistematicità e l'intenzionalità di comportamenti vessatori. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha spostato il focus dal dolo alla disfunzione organizzativa: è sufficiente il mantenersi di un clima lavorativo stressogeno o la reiterazione di atti colposi, anche non esplicitamente intenzionali, per far scattare la responsabilità datoriale. Il nuovo indirizzo giurisprudenziale afferma che anche condotte solo apparentemente legittime, collocate in un contesto ambientale stressante, configurano responsabilità in capo all'azienda qualora siano fonte di disagio psico-fisico documentabile.

La tutela si attiva indipendentemente dalla qualificazione come mobbing o straining, riconoscendo la rilevanza giuridica a ogni elemento che contribuisca a un clima insalubre, anche privo di intenti persecutori. Questa impostazione rafforza la posizione protetta del lavoratore e impone all'impresa l'obbligo di adottare tutte le cautele necessarie a garantire benessere organizzativo e sicurezza psichica.

Straining e singoli atti irrispettosi: quando scatta la tutela

La nozione di straining amplia la sfera di responsabilità del datore. Si tratta di una forma attenuata di vessazione, caratterizzata dall'assenza della sistematicità ma con effetti duraturi sul benessere personale e professionale. La Cassazione riconosce che anche un singolo atto irrispettoso, se produttivo di conseguenze rilevanti sulla salute, giustifica il diritto al risarcimento a prescindere dalla configurazione del mobbing.

  • Comportamenti isolati o incompatibili con il dovere di protezione, anche se ancorati a motivazioni datoriali apparentemente legittime, possono integrare il requisito del danno;
  • L'inattività forzata e l'assegnazione di compiti inutili costituiscono talvolta atti di straining se riconducibili a una gestione negligente, ai sensi dell'art. 2087 c.c.;
  • Un ambiente di lavoro conflittuale, anche in assenza di persecuzione pianificata, può produrre effetti di disequilibrio riconoscibili sotto il profilo medico-giuridico.
È stato ribadito che il dovere dell'imprenditore travalica il mero rispetto formale delle norme di sicurezza: la responsabilità sorge anche per omissione di misure preventive o gestionali laddove favoriscano il perdurare di condizioni stressanti.

L'onere della prova: cosa deve dimostrare il lavoratore e cosa il datore

Un tema centrale nei risarcimenti da stress lavoro-correlato è la ripartizione dell'onere probatorio. La Corte di Cassazione ha introdotto il principio di inversione della prova, snellendo notevolmente il percorso giuridico dei lavoratori danneggiati. Questa logica si basa su un duplice passaggio:

  • Il lavoratore (o gli eredi, in caso di esiti fatali) deve fornire la dimostrazione del danno subito e del nesso eziologico tra questo e le condizioni lavorative;
  • Ottenuto il riconoscimento del nesso causale, il datore di lavoro dovrà provare di avere adottato tutte le misure di prevenzione e organizzazione necessarie per scongiurare il rischio - pena la responsabilità risarcitoria.
Questa inversione si fonda sull'articolo 2087 c.c. e sulla natura contrattuale dell'obbligazione di sicurezza. L'impresa, titolare dei mezzi e delle informazioni organizzative, è la parte meglio attrezzata per dimostrare di aver adempiuto ai doveri di prevenzione. Le recenti pronunce hanno sottolineato che non è il lavoratore a dover discolpare l'azienda, mentre è richiesto all'amministrazione di dimostrare che il danno non sia attribuibile a lacune gestionali o organizzative imputabili alla stessa.

Come precisato dalle Sezioni Lavoro:

  • La valutazione del nesso causale deve fondarsi sull'analisi complessiva del rapporto lavorativo, e non su singoli eventi eccezionali;
  • Il datore di lavoro deve documentare in modo puntuale gli strumenti adottati per prevenire traumi emotivi e gestionali, tenendo conto dei rischi tipici e atipici della mansione.

Il ruolo dell'articolo 2087 c.c. e il dovere di prevenzione del datore

Il riferimento costante a livello normativo resta l'art. 2087 del codice civile, che impone all'imprenditore l'adozione delle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Tale obbligo viene declinato in termini di prevenzione attiva, estendendosi anche alle conseguenze psico-fisiche derivanti dalla gestione organizzativa e dalle condizioni ambientali:
  • Non è sufficiente dimostrare il rispetto formale delle normative di settore;
  • La valutazione dei rischi aziendali deve essere aggiornata e inclusiva dei pericoli connessi a stress, burnout e conflittualità;
  • L'obbligo datoriale si comprende anche come dovere di intervento tempestivo volto a eliminare fonti di disagio, anche quando emergano a causa di pratiche amministrative abituali o della cultura aziendale.
La Suprema Corte chiarisce che l'articolo 2087 c.c. si pone come vero e proprio baluardo nei confronti di qualsiasi comportamento, anche colposo o involontario, che possa tradursi in un deterioramento della salute dei dipendenti, rimarcando che la prevenzione è parte centrale e non accessoria dell'obbligazione contrattuale.

Casi concreti: esempi e sentenze della Cassazione

Numerosi episodi giurisprudenziali illustrano l'applicazione pratica di questi principi. La casistica affrontata dalla Corte di Cassazione mostra come siano tutelati sia il danno fisico che quello morale connessi allo stress lavoro-correlato:

Sentenza

Fatto e decisione

Ordinanza n. 26923/2025

Un medico ospedaliero, deceduto per infarto dopo anni di turni massacranti. Gli eredi dimostrano il collegamento tra condizioni lavorative e decesso. La Corte riconosce il diritto al risarcimento, spostando l'onere della prova sull'azienda, in virtù del mancato adempimento dell'obbligo di prevenzione ai sensi dell'art. 2087 c.c.

Sentenza n. 25191/2023

Un autista di autobus, vittima di infarto dopo anni di turni pesanti e carichi di lavoro insostenibili. Viene riconosciuto il danno morale oltre a quello biologico, considerata la sofferenza interiore subita dalla persona.

Sentenza n. 22161/2024

Una lavoratrice lasciata per anni in inattività forzata e senza compiti. La Corte riconosce la correlazione tra l'ambiente di isolamento occupazionale e l'insorgere di patologie ansioso-depressive, stabilendo un risarcimento al di là dell'intento persecutorio.

Sentenza n. 123/2025

Un'avvocatessa denuncia singoli atti pretestuosi e stressogeni da parte del direttore. La Cassazione riconosce la responsabilità datoriale anche in assenza di pluralità di azioni vessatorie.

La giurisprudenza conferma inoltre il diritto all'indennizzo INAIL in presenza di patologie correlate allo stress, nei limiti previsti dal Testo Unico delle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Il riconoscimento del danno morale rappresenta un ampliamento della sfera di tutela accanto al danno biologico. La Suprema Corte ha ribadito che la sofferenza interiore deve essere risarcita autonomamente, in quanto il danno alla salute non è solo fisico, ma coinvolge anche la dimensione emotiva e relazionale dell'essere umano.

Tra le componenti risarcibili rientrano:

  • Ansia, depressione, attacchi di panico risultanti da condizioni lavorative prolungatamente stressanti;
  • Stati di turbamento emotivo e perdita della progettualità personale;
  • Paura per il proprio futuro e riduzione della fiducia in sé stessi.
Il danno morale viene dunque separatamente quantificato rispetto a quello economico. Il giudice può valutarlo con criteri equitativi, tenendo conto della gravità e della durata della sofferenza subita.


Leggi anche