Non è sempre lecita la richiesta di restituzione dei soldi all'Inps da parte di pensionati che lavorano: le nuove recenti sentenze che lo stabiliscono
Negli ultimi anni si è assistito ad un incremento delle richieste di restituzione di somme da parte dell’INPS nei confronti di pensionati che continuano a lavorare. Queste richieste si basano sulla presunzione che il cumulo tra pensione e redditi da lavoro possa dare origine a prestazioni non dovute, in particolare quando vengono superati determinati limiti reddituali. Tuttavia, recenti sentenze hanno messo in discussione la validità di tali pretese, evidenziando come non sempre sia legittimo pretendere il rimborso.
Il diritto dell'Inps di chiedere la restituzione delle somme versate si configura principalmente laddove il titolare della prestazione abbia superato i limiti di reddito previsti o abbia fornito dichiarazioni incomplete o inesatte. Tuttavia, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, prima di richiedere la restituzione, l'Istituto deve accertare con precisione l’effettiva sussistenza di un indebito.
Di seguito si riassumono i casi in cui la richiesta può avvenire:
La richiesta risulta altresì non valida se fondata su motivazioni genericamente formulate o tardive rispetto ai termini fissati dalla legge, fattore che emerge nei casi decisi di recente dai tribunali.
Le pronunce più recenti hanno definito un quadro interpretativo innovativo per i diritti dei pensionati rispetto alle pretese restitutorie INPS. In particolare, si distingue la posizione assunta dal Tribunale di Ravenna.
Quest'ultimo ha sollevato dubbi sulla costituzionalità della richiesta, spiegando che chiedendo indietro i soldi della pensione si privano i pensionati dei mezzi di sussistenza minimi, e sottolineando che le richieste di rimborsi ai pensionati comunque si basano su una circolare interna dell’Istituto, che stabilisce che nel caso in cui una persona andata in pensione con quota 100 torni a lavorare, perde completamente la somma della pensione ricevuta nell’anno solare relativo. Si tratta, tuttavia, di un testo che non ha valore come fonte di diritto.
Anche la stessa Corte Costituzionale, intervenuta su sollecitazione del giudice del lavoro del Tribunale di Ravenna, ha ritenuto incostituzionale l’interpretazione della Corte di Cassazione sulla norma sulle pensioni con quota 100, secondo cui, ogni qualvolta una persona andata in pensione con quota 100 svolga un lavoro in modo subordinato, la conseguenza sanzionatoria, non prevista dalla legge, è la perdita dell’intero anno di pensione.
Ancora più incisiva risulta la sentenza n. 27572/2025 della Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che la restituzione delle somme può essere richiesta dalla pubblica amministrazione solo ove non vi sia stato un affidamento legittimo da parte del percettore e quando l’erogazione indebita sia diretta conseguenza di comportamenti scorretti o dolosi.
L’indebito assistenziale derivante dalla perdita successiva dei requisiti (es. limiti reddituali) è ripetibile soltanto a partire dal provvedimento che ne abbia ufficialmente accertato il venir meno.
Uno degli aspetti cardine della più recente giurisprudenza è la valorizzazione dei criteri di buona fede del pensionato nell’ambito della richiesta di recupero di somme, nonché l’affermazione dell’onere della prova a carico dell’INPS.
Secondo la Corte di Cassazione, laddove l’indebito maturi senza dolo, ma per situazioni conosciute o conoscibili dall’ente, il pensionato può legittimamente confidare nel mantenimento della prestazione. Ne deriva che la ripetizione diventa eccezione e non regola.
La ripartizione dell’onere probatorio comporta che l’INPS debba specificare in modo puntuale i motivi dell’indebito, mettendo il beneficiario in grado di comprendere e contestare la richiesta. Per quanto riguarda la buona fede, il comportamento diligente del beneficiario, la regolarità nelle comunicazioni fiscali e l’assenza di comportamenti omissivi rappresentano fattori decisivi per escludere la ripetibilità.
In caso di controversia, il pensionato deve dimostrare la regolarità della sua posizione, mentre l’ente ha il compito di indicare chiaramente le ragioni per cui la prestazione sarebbe indebita.
Le recenti pronunce hanno portato a conseguenze tangibili per i pensionati che lavorano. Le richieste automatiche e indiscriminate di restituzione avanzate dall’INPS dovranno ora essere supportate da un’attenta verifica e da una motivazione dettagliata, pena l’illegittimità delle stesse. Questo nuovo approccio tutela i percettori dalle richieste di rimborso basate su meri automatismi o su motivazioni generiche.
Da ora in avanti, i pensionati possono invocare il principio secondo cui la restituzione non è dovuta se le informazioni sui redditi erano già a disposizione dell’ente, a meno che non si dimostri un comportamento fraudolento, per cui: